Il sale della terra
A metà agosto, prima che le piogge autunnali arrivassero, le saline si riempivano di genti. Migliaia di persone erano chiamate a raccolta. Si aprivano varchi negli argini per far scorrere l’acqua rimasta. Lenze tracciavano linee parallele: l’assegnato stabilito per ognuno, il prelievo del giorno, la resa stabilita: 4 metri cubi di sale. La crosta del sale ancora morbida veniva rotta con colpi di zappa. 12 cm di spessore frantumati dalla forza del colpo di pala. Ammucchiato il raccolto formava un covone che sgrondava l’acqua residua. Per essere poi trasportato nelle ceste caricate a spalla. Andò così per secoli. Poi arrivarono le carriole in legno e le tavole poggiate sopra gli argini dove farle passare. Non sempre la manodopera era sufficiente. I detenuti erano la riserva di manodopera sempre disponibile. A consenso coatto. Arrivò la corrente elettrica e qualcosa cambiò. Elettropompe, nastri trasportatori, elevatori. Ferrovie a decauville. Le saline divennero cantieri. La manodopera non fu più necessaria, i detenuti esonerati. Dal 1980, in Sardegna, si effettua la raccolta del prezioso cloruro ogni, tre-quattro anni. Quando cioè la crosta del sale è abbastanza solida per reggere il peso degli autocarri, ruspe ed escavatori che hanno preso il posto degli uomini.